Un libro disomogeneo, scritto da un giovane di talento, metà cuoco e metà scrittore che sta scoprendo forse che è molto meglio scrivere che spadellare; intelligente, spesso ingenuo, come quando scrive del ‘vino della casa’ misconoscendo quanto ha fatto il metanolo e la cultura enologica del riscatto in questo settore.
Il volume I conti con l’oste. Ritorno al paese delle tovaglie a quadretti, Torino, Einaudi, 2020, pp-180, è stato stampato nel febbraio del 2020, e quindi concepito e scritto prima dello sconvolgimento di questi tempi.
Un libro disomogeneo, scritto da un giovane di talento, metà cuoco e metà scrittore che sta scoprendo forse che è molto meglio scrivere che spadellare; intelligente, spesso ingenuo, come quando scrive del ‘vino della casa’ misconoscendo quanto ha fatto il metanolo e la cultura enologica del riscatto in questo settore.
Il capitolo migliore è il primo, molto bello, ‘Ligue des Champignons’ che racconta della festa più attesa dell’anno da parte della ‘corporazione’ dei cuochi che lavorano a Parigi: un torneo a calcetto di una giornata ad eliminazione tra squadre dove non vi sono giornalisti, food blogger, né influencer o altri personaggi del genere ma dove, tra le altre, vi è la squadra dei cuochi italiani a Parigi, di cui fa parte anche il Nostro e capitanata da Giovanni Passerini “il miglior chef italiano a Parigi” (cit. p. 7).
“Ciascuno di noi si applica al gioco del calcio con lo stesso atteggiamento e con lo stesso stile con cui lavora. I camerieri scivolano via non visti fra gli avversari. I cuochi più giovani arroganti, con meno esperienze e tante idee in testa, giocano in modo poco muscoloso, molto pigro e non passano mai la palla, però ogni tanto si producono i gesti tecnici straordinari. Giocatori che sono anche proprietari dei locali dove lavorano sono i più affidabili e i più duri a morire, sanno che gli arabeschi i merletti sono molto meno utili della fatica e del sudore, quindi praticano questi e non quelli.” (cit p.6)
Un ‘romanzo’ di formazione professionale ed umana: un viaggio dall’esperienza parigina alla ricerca di un modello di cucina che trova nell’oste e nella trattoria il modello ideale e nostalgico che ricrei la stessa intimità e schiettezza della cucina di casa.
“I piatti che mangiamo e abbiamo sempre mangiato in trattoria non hanno nulla di diverso delle cose che si fanno a casa, e questo proprio perché la trattoria nasce quando una persona (o una famiglia) che cucina casa piuttosto bene decidi di farlo per più persone in un luogo più grande.” (cit. p.65).
“Come si fa la carbonara al ristorante? Perché non è mai come quella che ci facciamo a casa? E soprattutto, perché non può essere come dovrebbe essere, visto che la stiamo pagando? Perché non può essere meglio che a casa.” (cit. p.66).
Gli ultimi due paragrafi sono tratti dal capitolo “Carbonara confidential” nel quale il confronto tra la cucina di ristorante e quella di casa vede quasi sempre perdente quella del ristorante perché impone ritmi e scorciatoie che si riflettono sul sapore dei piatti, e che porta l’A. a sostenere “Dobbiamo imparare, come clienti, a pretendere dai posti dove andiamo a cena la stessa cura che pretenderemmo a casa nostra. Come cuochi e cuoche, invece, abbiamo un’occasione meravigliosa: prendere in mano la più grande tradizione gastronomica domestica, usarla per inventare la prossima forma del nostro mestiere […]” (cit. p.72)
Le schematizzazioni di Melilli, che non paiono tener conto di quanta competenza tecnologica ed organizzativa vi sia nella ristorazione di qualità, forse per la sua formazione da autodidatta, sono animate da un’esigenza vera, ancor più impellente in questo periodo di disagio e di costrizione: la necessità di ristabilire un rapporto più intimo e leggibile con sé stessi e con quel che mangiamo. E la strada più diretta è cucinare per sé e per i propri cari. Certo ci vuole tempo, ma è tempo trovato.
E’ venuta meno la trasmissione del sapere gastronomico all’interno delle famiglie, ma si sono moltiplicati gli strumenti: che saranno tanto più efficaci quanto vi sarà la consapevolezza che il ‘segreto’ non sta nella ricetta ma nella conoscenza delle materie prime, nella capacità di sfruttare la potenza dei sistemi di cottura e di conservazione, nell’ascolto della propria sensibilità e del proprio ricordo.